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La Pasqua all’Isola d’Elba: pane, dolci e fidanzamenti

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Le Feste erano davvero giorni di gioia per i nostri nonni.

Erano l’occasione per mettersi in ghingheri, per alcuni di mettersi le scarpe, e scendere (o salire) dalle campagne ai Paesi dove si riuniva la comunità, si faceva musica con l’immancabile banda, si incontravano i parenti, si combinavano (o scombinavano) i matrimoni, si seguiva la messa e la processione per mare o per terra, affidandosi alla sorte o alla fede, mescolando preghiere a usanze, a volte maliziose, che si perdevano nella notte dei tempi.

Anche il pane cambiava sapore e si faceva ricco, intrigante, diverso. Il pane delle feste era aromatizzato con anice, finocchio o addizionato con uvetta, pinoli, fichi secchi, insomma con quel che c’era, tanto per differenziarlo dal “pane quotidiano”, modellandolo in forme e fogge diverse. Per renderlo più “goloso” qualcuno aggiungeva anche il miele che successivamente, grazie ad un graduale miglioramento del tenore di vita, fu sostituito dallo zucchero. Quello che si comprava in bottega, nel cono di carta azzurra, quella appunto color “carta da zucchero”.

Particolarissimo è il pane con gli uccelli, detto anche pane ferettato un tipo di pane azzimo di probabile provenienza araba, anche se successivamente gli uccelli e gli smerli furono integrati con i simboli della religione cattolica. Gli uccelli, di contorno all’uovo sodo, stavano a significare l’inizio della stagione della fertilità. Non poteva essere scelto simbolo più azzeccato.

La sportella e il ceremito dalle inconsuete forme lunghe e tondeggianti, sono un chiaro riferimento agli attributi sessuali, rappresentando l’una il sesso femminile e l’altro quello maschile.

La versione più antica era più semplice, più povera e certamente senza zucchero, mentre oggi, usanza tuttora in voga presso le famiglie elbane, si decorano con zuccherini colorati.

I pani venivano usati come dichiarazione d’amore fra i giovani che si “guardavano”, che si piacevano. Il giovanotto, la mattina della Domenica delle Palme faceva pervenire alla ragazza desiderata un paniere adorno di fiori con il Ceremito, se la ragazza gradiva il regalo e quindi la dichiarazione d’amore, sempre che i genitori fossero d’accordo, il giorno di Pasqua contraccambiava facendogli recapitare una sportella infiocchettata.

Al contrario… una scarica di legnate!

Anche la caccilebbora di origine antichissima, il cui nome deriva probabilmente da caccialepre, era uno di quei pani, rappresentanti il sesso femminile, che venivano offerti alla dea Cerere protettrice dell’agricoltura affinché favorisse una stagione fertile e abbondante.

La schiaccia di Pasqua, non è molto dissimile da quella che si trova nell’entroterra toscano, anche se la caratteristica di quella elbana è che si deve lasciare lievitare cento ore.

A quei tempi non si andava di fretta e la pazienza era un valore. Si comincia a preparare il martedì della Settimana Santa.

Essenziali gli ingredienti: acqua, lievito e un pugno di farina per ciascun commensale che sarà presente il giorno del banchetto pasquale. Il segreto però, nonché gli ingredienti che fanno la differenza, sono i semi di anice e l’acqua di rose che annunceranno, già dal profumo, le fioriture della primavera. La sera dopo si aggiunge ancora un pugno di farina per ogni persona, si rimpasta e così di seguito fino al Venerdì Santo. Quella sera di ritorno dalla Processione del Cristo Morto si preparano i pani che si lasceranno lievitare fino alla mattina successiva, fino al momento di cuocerli nel forno a legna.

Si mangia il giorno della Santa Pasqua di Resurrezione al posto del pane quotidiano. Così buono, come si suol dire, da resuscitare un morto.

 

Alvaro Claudi