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Marmellata d’uva di Mechina

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Era un’avventura la vendemmia alla Cala! Le vigne sembravano non finire mai. Dovunque ti giravi vedevi il verde dei pampani e i grappoli biondi che ti facevano l’occhiolino da lontano, come a dire “mangiami, mangiami”.

Si partiva dalla spiaggia di sassi grigi, accanto al Moletto di Marciana Marina dove, proprio davanti, abitavano i nonni. Scesa dal “guzzo” e messo il piede sulla spiaggetta scogliosa con le tamerici che mettevano le radici fra le ghiaie, correvo su per il sentiero che dal mare saliva per un poco fino alla casa, con annesso il grande magazzino, che si apriva solo per la vendemmia.

Svelta, cominciavo a spazzare l’aia davanti, era delimitata da un muretto basso dove la sera ci mettevamo a contare le stelle, di lato un grande mandorlo sul quale si arrampicavano i gatti che a casa nostra non sono mai mancati. Era il mio compito e non c’era bisogno che mamma me lo ricordasse, magari con un nocchino.

Insieme portavamo fuori il tavolo e, dopo averlo pulito ben bene, era la volta della scorta di vasetti: mamma pensava a sterilizzarli, tutti in doppia fila, al sole generoso, sulla murella, per essere riempiti. Si scendeva nelle vigne a raccogliere i grappoli dorati, più maturi possibile. Il sapore dolce e unico ancora l’ho in bocca. E poi, coi cestini pieni, di nuovo su verso casa dove ci aspettava il braciere all’aperto con il pentolone per preparare la marmellata.

Il compito di sgranellare gli acini, ad uno ad uno, toccava a me. Poi nonna, mamma ed io ci dividevamo, in parti quasi uguali, il compito di togliere i vinaccioli ai chicchi, ed era la parte più uggiosa del il lavoro. Mia sorella Patrizia, che saltellava lì intorno muovendo i primi passi, approfittava per “inciuttare” le manine nel catino dove mettevamo l‘uva sgranata e senza noccioli per ficcarsela in bocca, bucce e tutto.

A questo punto, alla frutta versata nel pentolo, si aggiungeva lo zucchero, circa sette etti per un chilo e mezzo di frutta, e si lasciava macerare per un’ora con l’aggiunta di mezzo bicchiere di succo di limone. E poi la bollitura, mentre il profumo si spargeva intorno, richiamando vespe e insetti golosi che scacciavo prima che cadessero nel pentolo anche loro. Ne facevamo tanta perchè doveva durare fino all’anno dopo e in famiglia siamo sempre stati golosi. Dopo qualche oretta, raggiunta la giusta consistenza, Nonna riempiva i vasetti con la confettura e li lasciava capovolti e coperti oppure li metteva a bollire in un pentolone d’acqua, come faceva per la salsa di pomodoro, per evitare che andassero a male. A me rimaneva il piacere di leccare con gusto la mestola e le scolature della marmellata sul vassoio.

Giuliana Lupi